Ricca di risorse, questa parte di Sud globale è corteggiata da ovest e da est. Con la Cina che insidia il domino statunitense cavalcando l’antioccidentalismo insito nella popolazione. Che nella guerra d’Ucraina tifa Russia, nonostante i tentativi di persuasione dell’Unione Europea.
Il 17 e il 18 luglio a Bruxelles i 27 capi di stato dell’Unione Europea, a parte qualche assenza colmata da delegati, hanno incontrato i 33 omologhi della Comunità degli Stati Latinoamericani e dei Caraibi. Un’area complessiva che fa capo a 1.2 miliardi di persone, al 21% del pil globale e a una superfice terrestre pari circa alla somma di quella di Cina e Stati Uniti. Parte del Sud del mondo ha incontrato parte del Nord. Una volta colonizzati e colonizzatori, oggi impegnati a rilanciare le proprie relazioni politiche e commerciali.
Otto anni dopo l’ultimo incontro, che dovrebbe adesso avvenire con cadenza biennale, sono emerse significative divergenze, che hanno finito per offuscare l’importante piano di investimenti varato dall’Unione Europea nell’area. A prendersi la scena è stata la guerra in Ucraina, fattore totalizzante che su stampa e media ha sommerso i toni entusiastici della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Il balsamo dei 45 miliardi di euro stanziati dall’Unione Europea non è bastato, e la necessità di una dichiarazione congiunta sulla guerra è stata la causa principale dell’andamento farraginoso del vertice.
Nella prima versione del documento sull’incontro si era ventilata la possibilità della presenza in videoconferenza del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. La bozza è stata però rimandata indietro modificata nei passaggi sull’Ucraina che, come testimoniato da fonti interne all’Unione, sono stati totalmente rimossi[1]. La volontà dei paesi a sud del Rio Grande di ridurre ai minimi termini i riferimenti alla guerra si è espressa anche nella versione finale del documento, in cui esprimono «profonda preoccupazione»[2] per la guerra, senza mai nominare la Russia. Formula edulcorata rispetto a quella richiesta dai paesi europei, ma comunque giudicata eccessiva dal Nicaragua, che pertanto non ha firmato il testo.
L’America Latina si è rivelata, nella sua interezza, terreno di difficile conquista per la persuasione europea (e statunitense). Longeve forme di diffidenza alimentano un antioccidentalismo dalle radici profonde, variabili che in grado di influenzare le popolazioni dell’area come anche le classi dirigenti.
Il lontano trattato di Tordesillas che nel 1494 spartiva i territori del centro e del sud America in possedimenti spagnoli e portoghesi; lo schiavismo; la ‘dottrina Monroe’ del 1822, con la quale gli Stati Uniti rimpiazzavano in forma apparentemente più blanda le velleità europee durante il periodo delle indipendenze sudamericane. Poi il sostegno più o meno palese alle repressive dittature militari della seconda metà del Novecento; il Messico che al termine della guerra con gli Stati Uniti nel 1848, è stato privato di metà del suo territorio; infine, il muro odierno, attribuito a Trump ma già di lungo corso. Ricordi che per molti sono ferite ancora aperte. Parzialmente lenite dalla forte presenza di popolazioni di origine europea che oggi mantengono un blando legame affettivo con le terre di origine, ma ben presenti nella mente dei discendenti di schiavi di cui è tristemente pieno il subcontinente americano. Un mix spesso letale per la propaganda occidentale.
Non è un caso che i paesi latinoamericani abbiano voluto l’introduzione nel documento di una simbolica e fortemente provocatoria richiesta di risarcimento volta ad «aiutare a guarire la nostra memoria collettiva e a invertire l’eredità del sottosviluppo»[3].
Già prima del vertice nessuno degli attori più importanti del subcontinente aveva preso posizioni nette contro la guerra russa in Ucraina, effetto anche di una presenza politica ed economica di Mosca nell’area. La Russia può contare sull’esplicito appoggio di paesi amici come Venezuela, Nicaragua e Cuba, anche in virtù dell’influenza generata dalle sue esportazioni di fertilizzanti, circa il 15% del totale mondiale. Fertilizzanti da cui dipendono non solo le agricolture di Brasile[4], Messico e Perù – con la Russia impegnata a garantirsi le ingenti entrate che ne derivano – ma di buona parte del mondo che non può permettersi l’aumento vertiginoso dei prezzi causato da un eventuale stop alle esportazioni[5].
L’area centro e sudamericana ha visto da qualche anno un lento ma costante incedere della Cina, nel tentativo di Pechino di fare da controcanto ai condizionamenti politici, economici e militari che Washington persegue nell’estero vicino cinese. La volontà di minare le basi del predominio mondiale di Washington ha reso il cosiddetto ‘giardino di casa’ statunitense l’ennesimo luogo di scontro per le due superpotenze, alacremente impegnate a proiettare la propria influenza nei pressi dei confini del rivale.
La Cina per volumi di merce scambiata con l’intera America Latina è oggi seconda, con un commercio che dal 2000 è aumentato del 2100%, passando da 12 dollari a 495 miliardi di dollari nel 2022, con un parallelo aumento vertiginoso anche dei prestiti elargiti dalla China Development Bank e dalla China Eximbank, ormai in grado di rivaleggiare con le concorrenti statunitensi del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e della Banca interamericana di Sviluppo[6]. Progetti spesso inclusi nell’ambito della Via della Seta[7], l’enorme piano di investimento infrastrutturale della Repubblica Popolare che coinvolge ad oggi 21 paesi dell’area. L’assenza più significativa è quella del Brasile, presenti, fra gli altri, Argentina, Uruguay, Cile, Panama e Nicaragua[8]. Fondi e legami economici strettamente legati a secondi fini politici e geopolitici, che recano il segno più tangibile nel riconoscimento diplomatico della Cina a scapito di Taiwan. Pechino impone su questo una scelta netta e da cinque anni a questa parte annovera sul piano diplomatico cinque paesi latinoamericani in più: Repubblica Domenicana, El Salvador, Nicaragua, Panama e Honduras, il più recente. Nelle parole del ministro degli Esteri honduregno si riscontrano le motivazioni della mossa diplomatica: «abbiamo bisogno di investimenti e cooperazione, di pragmatismo, non di ideologia»[9]. L’Honduras adesso lavora per ottenere da Pechino un prestito per la realizzazione della seconda di tre dighe idroelettriche progettate sul fiume Patuca, il più lungo del paese. La prima diga, la Patuca III, era sta già finanziata e costruita grazie a un prestito cinese di 298 milioni di dollari.
Gli Stati Uniti dal canto loro mantengono saldo il ruolo di primo paese per merci scambiate con la regione e un soft power variamente esercitato. Un caso significativo è quello del Gran Canale del Nicaragua che aveva l’obiettivo di rimpiazzare il canale di Panama, un progetto ingegneristico di dimensioni enormi, dietro il quale si trovava Wang Jing, magnate cinese delle telecomunicazioni con un patrimonio stimato in 10 miliardi di dollari. Non si sa con certezza se fosse manovrato dal governo di Pechino, resta il fatto che – nel 2013, al momento del lancio ufficiale del progetto e dell’approvazione dello stesso da parte del parlamento di Managua – il valore dell’investimento era pari a cinque volte il suo patrimonio, denaro destinato a un progetto giudicato da molti come economicamente insostenibile. Ebbene, sotto il fuoco incrociato di sanzioni economiche da parte di Washington, prima dirette al magnate e poi alla cerchia del presidente nicaraguense Daniel Ortega, e di proteste ambientaliste e della società civile contro un canale dal valore di quasi quattro volte l’intera economia del paese, il progetto si è da tempo arenato[10]. Un fatto che testimonia la varietà di ‘armi’ nell’arsenale di Washington, supportate da una consistente e storica presenza militare nell’area.
Pechino continuerà con le pazienti opere di infiltrazione economica, concedendo prestiti senza imporre precondizioni (tipicamente occidentali) in materia di diritti umani e ambiente, limitandosi a minacciare ritorsioni in caso di mancati adempimenti e cercando di penetrare militarmente l’area[11].
Sullo sfondo l’Unione Europea che, con il piano Global Gateway da 45 miliardi di euro varato in occasione del summit, tenta, forse in ritardo, di recuperare terreno.
* di Giuliano Lodato – Alumnus della Scuola di Domino
[1] C. GIJS, J. BARIGAZZI, «EU, Latin America at odds on Ukraine and Mercosur trade ahead of big summit», Politico, 7/7/23.
[2] «Su Ucraina intesa tra Ue e Celac ad eccezione di Nicaragua», Ansa, 18/7/23.
[3] A. BRZOZOWSKI, A. PUGNET, «LEAK: Latin American countries push back on Ukraine, EU agenda ahead of joint summit», Euractiv, 16/7/23.
[4] R. PECORI, «Brasilia vs Washington»; Domino, n.6, 2023.
[5] J. NICAS, «Good news foor food, bad news for war: Brazil buys russian fertilizer», The New York Times, 8/5/22.
[6] J. A. GUZMÁN, «China’s Latin American Power Play», Foreign Affairs, 16/1/23.
[7] F. CASAROTTO, «Qualcuno salvi le nuove vie della seta», Domino, n.3, 2023.
[8] M. STOTT, «US reluctance on trade deals sends Latin America towards China», Financial Times, 24/5/23.
[9] I. WOODFORD – G. PALENCIA – S. KINOSIAN, «Debts and investment spur Honduran change of allegiance to China», Reuters, 16/3/23.
[10] T. MARSHALL, Le 10 mappe che spiegano il mondo, Garzanti, Milano 2017, pag. 266-277; N. MULLER, «Nicaragua’s Chinese-Financed Canal Project Still in Limbo», The Diplomat, 20/8/19.
[11] La più recente notizia sul tema risale a giugno 2023, è uno scoop del Wall Street Journal che segnala l’imminente costruzione di una base di spionaggio cinese a Cuba.