Linea rossa statunitense, provincia ribelle cinese, polo globale dell’industria dei semiconduttori, Formosa è il tassello centrale del «conflitto mondiale a pezzi» evocato da Bergoglio. Narrato come evento decisivo, oggi quasi venti milioni di elettori sono stati chiamati alle urne per decidere il futuro dell’isola. Eppure le elezioni di Taipei non cambieranno (quasi) nulla.
Il neopresidente eletto è Lai Ching-te, candidato del Partito Progressista Democratico (Dpp). Sconfitti invece Hou Yu-ih, candidato del Partito Nazionalista Kuomintang (Kmt), e Ko Wen-je, del Partito Popolare di Taiwan. Mentre Lai, appartenente al medesimo partito della presidente uscente Tsai Ing-wen, era il candidato più critico nei confronti delle interferenze di Pechino, Hou Yu-ih esprimeva posizioni più accomodanti verso il Dragone.
Eppure, più che per determinare un eventuale cambio di passo nei confronti di Pechino, le elezioni di oggi sono state viste dalla popolazione taiwanese come un referendum sulle politiche interne attuate dalla presidente uscente Tsai Ing-wen. Perché per quanto differenti, tutti i candidati hanno espresso la volontà di mantenere lo status quo dell’isola ed evitare una riunificazione con Pechino.
Poche settimane fa Xi Jinping ha minacciato che «Taiwan sarà sicuramente riunificata alla Cina», intimando alla popolazione locale di «fare la scelta giusta» alle elezioni. E nei mesi precedenti Pechino avrebbe anche utilizzato intelligenze artificiali generative per diffondere propaganda e tentare di sabotare il risultato delle elezioni taiwanesi.
Gli Stati Uniti hanno accolto favorevolmente l’esito del processo elettorale, intimando alla Cina di non attuare provocazioni nelle acque prospicenti Formosa nei prossimi giorni. Ma la vittoria di Lai, che potrebbe esacerbare una risposta scenografica di Pechino a ridosso dell’insediamento ufficiale del presidente, non intaccherà i movimenti di Taipei. Dunque l’isola rimane sospesa, in attesa che il suo futuro sia determinato dall’esterno.