La scorsa settimana l’Ecuador è stato sconvolto dalla violenza. Attraversato da rivolte coordinate nelle carceri e nelle strade, il governo di Quito ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale e imposto il coprifuoco. Per non precipitare nel baratro di una guerra civile.
Al centro dei tumulti vi è l’evasione di Adolfo “Fito” Macías dal carcere di Guayaquil, nell’ovest del paese. Macías, al vertice di Los Choneros, una delle due gang che si spartiscono il narcotraffico ecuadoriano, sarebbe anche il mandante dell’assassinio del candidato presidenziale Fernando Villavicencio, ucciso ad agosto da un sicario colombiano.
Benché incastonato tra Peru e Colombia, tra i maggiori produttori ed esportatori di cocaina, fino agli anni Dieci l’Ecuador era stato solo passaggio per le rotte del narcotraffico. La dollarizzazione dell’economia e le misure adottate verso i cartelli colombiani hanno aperto il mercato alle gang locali e straniere.
Proiettata rapidamente nella violenza, oggi Quito fatica a contrastare il fenomeno. La corruzione, specialmente nell’ecosistema carcerario, è divenuta ormai endemica, mentre le Forze armate (sovente conniventi con le gang) hanno parzialmente perso il controllo del territorio. In pochissimi anni l’Ecuador è diventato uno dei paesi più pericolosi al mondo.
Al governo del presidente Noboa, che ha intimato l’esercito di neutralizzare con ogni mezzo le bande armate, hanno risposto i narcos avvertendo che «civili e militari saranno il bottino di guerra». Più che un golpe, l’Ecuador fronteggia un conflitto interno causato dal dilagare del narcotraffico. Una lotta di potere intestina capace di proiettare il paese nel caos.